Per il Rojava: a sei anni dalla liberazione di Kobanê

di Marta Serafini (da ANBAMED)

Oggi vi parlo di un altro anniversario, quello della liberazione di Kobane, definitivamente ripresa nel 2015 dalle forze curde dello Ypg che riuscirono a scacciare i miliziani dell’Isis. Quella battaglia ha in qualche modo segnato anche le nostre vite e la mia generazione ed è per questa ragione che voglio ricordarla. Ma mi chiedo anche cosa sia cambiato a distanza di sei anni, perché l’Isis ancora spadroneggia, la Turchia ancora impedisce la nascita del Rojava, il progetto confederale di autonomia sognato da Ocalan e lo stesso “Apo”, come i curdi chiamano il loro leader, resta in carcere. Possibile dunque che nulla possa cambiare, nonostante l’impegno e il sangue versato?

L’assedio di Kobane è durato 134 giorni. Era iniziato in settembre 2014, quando i primi colpi dell’Isis avevano ferito la città. In migliaia erano scappati. Ma a difendere la città rimasero, tra gli altri, i miliziani e le miliziane curde dello YPG e dello YPJ.

Il mondo si fermò a guardare per giorni con il fiato sospeso. E tanti giovani dall’Europa e dagli Stati Uniti decisero di unirsi alla battaglia per difendere quella città sotto la collina. La bandiera del Califfato faceva paura. E non faceva paura solo agli abitanti di Kobane. Ma terrorizzava anche tutti noi, dopo gli attacchi terroristici di Parigi.

La battaglia per Kobane è considerata un punto di svolta nella guerra contro l’Isis. I miliziani di Al Baghdadi, avendo concentrato le proprie forze in un’area relativamente ristretta, subirono pesanti perdite per via dei bombardamenti della coalizione a guida statunitense. E non riuscirono più nella loro avanzata.

La città fu completamente riconquistata il 27 gennaio 2015. Le milizie curde, insieme a gruppi armati arabi alleati e coperte dagli attacchi aerei americani effettuarono rapide avanzate nelle zone rurali della città, costringendo l’Isis a ritirarsi a 25 chilometri dalla città entro il 2 febbraio 2015. Kobane, di fatto, è stata la prima delle ultime battaglie del Califfato.

Sei anni dopo, però l’Isis non è sconfitto. Esiste e uccide ancora, soprattutto in Iraq – è di pochi giorni fa il duplice attentato kamikaze che ha fatto decine di vittime a Baghdad. E i suoi miliziani vagano di guerra in guerra, per lo più al soldo dei regimi che li assoldano per il lavoro sporco. Ma non solo. Il sogno di autonomia confederale del Rojava resta ancora un miraggio e appare sempre più fragile, mentre Erdogan minaccia di riprendere le operazioni militari contro il nord est siriano. Il nemico è ancora lì, così come lo è la sua ombra.

Noi stessi non sembriamo certo essere usciti più forti da quella battaglia e non sembriamo assolutamente aver imparato la lezione perché tradire il tuo alleato significa perdere. A questo proposito mi ha molto colpito la notizia che Hillary Clinton voglia finanziare una serie tratta da The Daughters of Kobani: A Story of Rebellion, Courage, and Justice dello scrittore Gayle Tzemach Lemmon, un libro basato su centinaia di ore di interviste con le miliziane delle Unità di protezione delle donne (YPJ), l’ala femminile dello YPG. Lo YPG è il braccio armato del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), gruppo di sinistra in lotta contro la Turchia dal 1984. La notizia è stata accolta con indignazione dalla stampa turca, che accusa Clinton di voler riabilitare il PKK. Ma non solo. Critiche sono arrivate anche dal lato curdo per la scarsa coerenza dei Clinton. Nel 1997, sotto la presidenza del marito di Clinton, Bill, il PKK è stato designato come organizzazione terroristica dal Dipartimento di Stato statunitense, una classificazione che persiste fino ad oggi, ma non si applica allo YPG o alle YPJ che gli americani e le potenze occidentali hanno supportato – ma anche utilizzato – per sconfiggere l’Isis. E ancora Il leader del PKK, Abdullah Ocalan, è stato catturato in Kenya con il sostegno della Cia proprio sotto la presidenza di Bill Clinton, prima di essere rimpatriato per il processo in Turchia, dove è tutt’ora detenuto. Difficile dunque, per molti, pensare a un interesse sincero nei confronti della causa curda da parte dell’Occidente e di Washington in particolare.

Dunque cosa è rimasto della battaglia di Kobane, solo l’immagine iconica di quelle giovani donne impegnate nella battaglia? A cosa sono serviti tutti quei morti? Siamo usciti migliori da quella battaglia? O riusciamo ancora una volta ad essere solo profondamente egoisti e incoerenti lasciando così il campo libero ai nostri nemici?

*Marta Serafini, giornalista, è al «Corriere della Sera» dal 2007. Si occupa di terrorismo e relazioni internazionali.

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