Il dramma cambogiano

Christoph Froehder (AP), Un soldato Khmer ordina ai commercianti di lasciare i loro negozi, Phnom Penh (Cambogia), 17 aprile 1975.
Il 17 aprile 1975 i Khmer rossi accerchiano e occupano la capitale cambogiana Phnom Penh, che sarà completamente svuotata in tre giorni: nel “nuovo mondo” non c’è spazio per realtà cittadine. Viene attuato un progetto di ingegneria sociale: lo scopo principale è trasformare la natura umana rendendo gli individui degli automi asserviti totalmente. L’uomo nuovo deve essere rivoluzionario, ateo, etnicamente puro, privo di inclinazioni borghesi, dedito esclusivamente al lavoro dei campi, alla propria patria e all’Angkar, la nuova e misteriosa divinità politico-religiosa che, recita la propaganda di regime, “ha occhi e orecchie dappertutto.
I Khmer distruggono i legami famigliari (emblema del passato da cancellare), massacrano gli inadatti alla nuova realtà (vecchia guardia, intellettuali, commercianti e tutti i potenziali oppositori politici). In tre giorni la popolazione delle città viene deportata nelle campagne. In quella lunga marcia muoiono migliaia di persone.
La Cambogia viene completamente isolata dal resto del mondo e si tramuta in un gigantesco campo di concentramento a cielo aperto. La popolazione non sa chi siano i funzionari che li comandano esercitando un potere totale. I capi dell’organizzazione sono anonimi e vengono chiamati “fratelli” o con un numero. Pol Pot, ad esempio, è il “fratello numero 1”. La popolazione viene deportata in grandi comuni agricole, isolate l’una dall’altra, la proprietà privata e il denaro sono aboliti, il riso diventa la valuta corrente.
Nel 1979, dopo aver eliminato un terzo della popolazione, i Khmer rossi lasciano il Paese, cedendo all’avanzata delle milizie vietnamite che trasformano la Cambogia in uno Stato satellite fino al 1989: in quell’anno, sotto l’egida delle Nazioni Unite, viene ripristinato il Regno di Cambogia con l’instaurazione di una monarchia costituzionale a struttura democratica.

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